viernes, 9 de octubre de 2015

INVENTORAS

Mi hija mayor, que está en tercero de primaria, trajo ayer como tarea hacer una lista de inventores famosos. En seguida salieron de mi boca nombres como Alexander Graham Bell, Thomas Alba Edison, Guglielmo Marconi, Henry Ford o Leonardo da Vinci.

Hoy me ha preguntado:
— ¿Mamá, y no hay ninguna mujer inventora?
— Pues, la verdad, no lo sé. Seguro que hay, pero no son famosas.
— Pues vaya rollo.


            Y, efectivamente, he estado mirando en internet y he visto que hay algunas, que no son muy conocidas, que algunas fueron muy prolíficas y que en su mayoría inventaron cosas que hacían la “vida doméstica” más sencilla. Tela marinera.

Ángela Ruiz Robles, creo un libro electrónico precursor
de las tablets (Imagen tomada de www.pinterest.com)

miércoles, 16 de septiembre de 2015

Hecha la ley...

Me toca la flor que mi compañía de teléfonos me llame una y otra vez para que fusione mi fijo con los móviles o para que me ponga sus canales de televisión o para que me fusione toda yo con mis teléfonos y su televisión y demos a luz una tablet. Da igual que les diga que no quiero, que el día que quiera, les llamaré yo para ver qué ofertas tienen, que lo apunten y que no me llamen más, que aún así, vuelven a intentarlo.

Pero lo que ya no concibo como normal es que me llamen para ofrecerme servicios: “gratuitos durante treinta días, para que lo pruebe, señora”, que no tienen nada que ver con su ámbito. Hace un año me llamaron para ofrecerme un servicio de abogados. No he necesitado jamás uno, toco madera, pero “señora, nunca se sabe”, trató de sugestionarme el ¿comercial? y empezó a ponerme ejemplos de lo que podía pasarme y me vendría bien tener un abogado a mi servicio. Le di las gracias y le dije que prefería arriesgarme, que si en cuarenta y pico años no había necesitado un abogado, mala suerte si en los siguientes treinta días tenía que recurrir a uno.

Esta cara se me queda cada vez que intentan venderme
algo por teléfono. Foto tomada de www.periodistadigital.com

Ayer me llamaron otra vez, me ofrecían de nuevo gratis durante treinta días un servicio médico en el que si, por ejemplo, voy al dentista me descontarán el 70%. Le he dicho a la chica que me parecía fatal que mis datos se los estuvieran vendiendo a empresas ajenas a mi compañía telefónica. Me ha dicho que no, que sin mi consentimiento, no podían facilitárselos a nadie, que esa otra empresa “colabora” con ellos. Ya, claro, como la de los abogados. Le he dicho que podían llamarlo como quisieran pero que me olía fatal y para mí era una venta de datos personales disfrazada (pero claro, hecha la ley, hecha la trampa, siempre hay un camino por el que llegar a donde quiero). Que los temas médicos los tengo resueltos y que cuando necesito algo, yo misma me busco la vida mirando precios y servicios. Y que, de paso, apuntara que no quiero que me vuelvan a llamar para ofrecerme nada que no tenga que ver con los servicios que da su compañía. La próxima vez tendré que pedirles la grabación de la conversación (que me avisó al principio de que la estaban grabando) para adjuntarla a la denuncia en la Agencia de Protección de Datos por saltarse la ley.

lunes, 22 de junio de 2015

Non avrei dovuto farlo

Questo qua è il racconto con cui a marzo ho vinto il secondo premio al concorso "Relats de dones" che organizza il Comune di Tarragona. Il racconto originale, "No ho haria d'haver fet", è stato scritto in catalano. E sono molto fiera di me perchè era la prima volta che osavo presentare un mio racconto scritto in catalano ad un concorso. Non è molto politicamente corretto, ma così mi è venuto.



NON AVREI DOVUTO FARLO
Non avrei dovuto farlo, ma l’ho fatto. Tornavo dall’ennesimo colloquio di lavoro, sono uscita proprio contenta. Quel tizio di Risorse Umane sembrava simpatico e quando mi ha detto:
—Ti chiameremo.
Ho pensato che lo diceva sinceramente. Ma poi sono salita in macchina e, man mano che mi allontanavo dal parco industriale, mi sono resa conto che no, che quello lo diceva a tutti e, alla fine, non mi chiamerebbero. C’era qualche possibilità di trovare un lavoro per una donna quarantenne, separata, con due figlie piccole? Ero da due anni disoccupata e sembrava que ancora ci sarei qualche anno in più.
Quando sono uscita c’era una pioggia sottile e faceva un freddo cane. Così tanto che ho indossato guanti e cappotto e non li ho tolti nè in macchina, perchè il riscaldamento faceva tanto che si era guastato e non ero stata in grado di sistemarlo. Qualche minuto dopo, la pioggia diventò un nubifragio che sfidava i lavacristalli della mia macchina. Ho smesso di accellerare, perchè non conoscevo la strada. Allora mi è sorpassato un macchinone veloce come un razzo. Lasciava dietro una scia di goccine d’acqua che mi ha sporcato il parabrezza durante quattro va e vieni dei lavacristalli. L’ho perso di vista. Non si vedevano più veicoli per quella strada che faceva paura con tante curve, tutti sceglievano l’autostrada, troppo cara per me, ovvio.
Qualche curva più in là ho visto di nuovo il macchinone, fracassato contro l’argine. Che batticuore, mamma mia! Sono passata al suo fianco pian piano guardando e mi sono fermata. Sono scesa con il giubbotto di emergenza e il cellulare, sotto la pioggia, e mi sono avvicinata. Aveva il cofano schiacciato; il parabrezza, schiattato in mille pezzi ma non rotto, e l’air-bag c’era sgonfio sopra il volante. All’interno, solo una signora. Non si muoveva, non diceva niente. Aveva la testa appoggiata nel poggiatesta e gli occhi chiusi. Allora ho aperto la portiera e ho spento il motore. Prima di chiamare il cento dodici, ho controllato il suo polso, come fanno nei film, mettendo le dita sul suo collo. Non mi è sembrato sentire nessuna pulsazione, era morta, n’ero sicura. Nel cellulare ho digitato l’uno e l’uno... Allora ho notato che dall’orecchia le usciva un filo di sangue. Dall’orecchia. E dall’orecchia penzolava un orecchino d’oro e brillanti. O quello ha sembrato a me, perchè io, di gioielli, non capisco un granché. Io voleva digitare il due, ma i miei occhi non volevano smettere di guardare quel orecchino così bello. Ho respirato profondamente, ho guardato a destra e sinistra. Niente macchina. Solo il rumore della pioggia che cadeva sopra le foglie degli alberi cadute a terra e sopra la carrozzeria del macchinone. Ho messo il cellulare in tasca.
—Signora —ho detto e le ho sfiorato la spalla—. Signora, mi sente?
Niente. Mi sono guardata la mano con cui le avevo toccato la spalla. Portavo il guanto. Una sorta di shock elettrico mi ha percorso il corpo, da giù a su, e il mio cuore è cominciato a gallopare. Il mio cervello stimava quanto costarebbe quel orecchino. Ho guardato di nuovo a destra e sinistra. Avevo la bocca secca. E non l’ho più pensato, le ho tolto l’orecchino dalla orecchia sinistra e poi, palpando alla cieca, quello della destra. Li ho messi in tasca. Nella mano destra portava un anello con una pietra gigante. L’ho anche preso. E la fede. Nell’orologio c’era la scritta “Rolex” ed è diventato mio subito. Al collo portava una collana dorata e, non volendo muoverle la testa, ho cominciato a farlo girare pian piano, così che il fermaglio mi fosse accessibile. Ma, pur essendo stata molto cauta, di subito, la signora lascio scappare un sospiro e una specie di lamento. Ho avuto molta difficoltà a toglierle la maledetta collana, perchè mi tremolavano le dita e con i guanti non riuscivo. Lei si lamentava ma gli occhi non ce la faceva ad aprirli.
—Tranquilla, non fa niente —le ho detto.
Che stupida! Con le tasche piene di gioielli, ho chiuso la porta del macchinone. Ho ancora guardato a destra e sinistra e ho corso verso la mia macchina. Sono uscita da là più veloce della luce. Non ho nemmeno guardato nello specchietto retrovisore. Non avevo più freddo, anche se ero bagnatissima di pioggia. Se quella signora aveva quella macchina e portava quei gioielli, di sicuro ne avrebbe di più. Ho soltanto desiderato che qualcun altro passasse di là e le desse la mano che io non avevo potuto darle.
Invece di tornare a casa, sono andata nella città vicina. Ho cercato un negozio di quelli in cui puoi portare le tue cose e te le comprano senza chiederti una spiegazione.
Oggi sono ancora disoccupata. Ma quella signora ha sovvenzionato il nostro cibo per due mesi.

lunes, 15 de junio de 2015

Ulises en dos mundos

      El viernes llegó a mis manos el libro Un cielo propio, antología de literatura breve, el libro de los alumnos (y profesores) de la Escuela de Escritores en el que he tenido la osadía de participar de nuevo este año. Entro los relatos de 151 alumnos y algún profesor (creo que he contado bien) está el mío, Ulises en dos mundos. Lo escribí en febrero, un mes la mar de prolífico, ya lo conté en los posts anteriores, y es un homenaje a cómo se sienten muchas veces las personas que tuvieron que moverse de su ciudad o país de origen por los motivos que sean. Y los que nunca se han movido del lugar que los vio nacer, difícilmente comprenden. Sí, hay parte de autobiográfico, claro, yo también dejé Ítaca y he anclado mi navío en varias Troyas.



ulises EN DOS MUNDOS
Yolanda Gil Jaca
Tarragona, España
A los de aquí y los de allá.
Que nunca conozcáis la soledad ni la decepción.

ulises EN DOS MUNDOS

Me vi empujado a dejar Ítaca, así que puse mis sueños en la mochila y partí más allá de las fronteras en busca del futuro. Atrás quedaron mi familia, mis amigos y mi pasado. Cosas que pensé que recuperaría si algún día volvía y que quedaron en mi memoria, congeladas. La mayoría prometió viajar a Troya a verme, pero ahora he comprendido que todo se debió al entusiasmo que tienen las despedidas: grandes planes que luego nadie llevó a cabo.
Cuando llegué al destino todo me pareció maravilloso, un mundo nuevo se abría ante mí y traté por todos los medios de adaptarme, de mezclarme con sus gentes y comportarme como uno de ellos. Otros emigrantes quisieron acogerme en sus grupos, pero temí acabar en una especie de gueto, en una isla itacense impermeable a la cultura troyana, y terminar excluido. Además, sabía que en esas reuniones acabaríamos hablando de nuestro origen, dejaríamos brotar sin vergüenza nuestra añoranza y celebraríamos las fiestas y tradiciones de la tierra que dejamos. Eso no me atraía demasiado, pero accedí, aunque dentro de unos límites, yo decidía cuándo.
Reconozco que el principio fue duro, me sentí solo, lejos de los míos y sin nadie en quien apoyarme. Pasado el plazo prudencial en el que uno se protege para no abrir la puerta al primero que se presenta, comencé a hacer amistades y a dar confianza a las personas que creí que valían la pena. Cuando me invitaban a una cena o a salir, contaba las horas, y durante el encuentro daba lo mejor de mí mismo para que volvieran a pensar en mí. Pero al parecer, pasada la novedad del itacense recién llegado, visto como alguien diferente al que preguntarle por la crisis que asolaba Ítaca, sus costumbres y la famosa gastronomía itacense, la gente empezó a espaciar sus invitaciones. Y descubrí que también los troyanos tenían momentos de entusiasmo y efervescencia en los que se lanzaban a organizar salidas al monte, comidas, cenas o lo que fuera. Y yo, ingenuo, me apuntaba de buen grado a todo. Sin embargo, a la hora de la verdad, esa efervescencia inicial iba perdiendo fuerza a medida que pasaban las horas o los días y la mayor parte de todos esos planes se convertían en humo. En ocasiones, yo mismo los convocaba y el quórum inicial era alto pero luego iba cayendo para al final oírme un “lo dejamos para otro día que pueda más gente, ¿de acuerdo?”. Y ese otro día, nunca llegaba. Para ellos, que tenían sus vidas hechas antes de que yo llegara, estos cambios de última hora no parecían tener importancia. Yo sólo era una pieza nueva difícil de encajar. Incluso llegué a sentirme culpable, nadie me obligaba a embarcarme en sus planes, y me los tomaba demasiado en serio. ¿Daba importancia a algo que no la tenía? No lo creo.
Cada plan anulado me decepcionaba más. Llegaba el fin de semana y me sentía más solo que nunca ya que todos tenían planes con sus familias o sus amigos de siempre. Yo eso lo respetaba, pero me hubiera gustado que también respetaran los planes que habían hecho al principio conmigo. Yo era un mendigo invisible porque nadie parecía ser consciente de mi soledad y saltaba de alegría cuando alguien se dignaba a echarme una moneda de compañía.
Además, volver a Ítaca era cada vez más difícil. Como en “Los siete mensajeros” de Buzzati, las noticias que me llegaban eran cada vez menos frecuentes, más breves y se referían en más ocasiones a caras y nombres que yo había empezado a olvidar. Cuando tuve la oportunidad de volver, me di cuenta de que todo lo que había dejado en Ítaca había cambiado y poco tenía que ver con lo que mi memoria había retenido. La gente había seguido sus vidas sin mí y cuanto más tiempo llevaba ausente, menos tiempo podían dedicar para vernos y conversar. En Ítaca mi gente había dejado de echarme de menos poco a poco.
En Troya era el itacense y en Ítaca, el troyano. Conocía dos mundos y no pertenecía a ninguno. Aunque yo me había engañado pensando que me desenvolvía en los dos. Me di cuenta de que, cuando llegué a Troya, nadie me esperaba, y de que al irme de Ítaca, mis huellas las había ido borrando el tiempo.
Después de muchas desilusiones, de que tantos planes se cancelaran en el último momento, acabé aceptando que yo era uno más y que los troyanos no me valoraban como amigo en la misma medida que yo a ellos. Me volví huraño y antipático, aposta. Me convencí de que la soledad no era tan desagradable y de que tenía sus ventajas. Pasaba los fines de semana encerrado en casa, decidí dejar de mendigar. Prefería que los demás me invitaran, decirles que sí y después que no, que tenía otros planes. Para que supieran lo que era el rechazo. Aunque en lo más hondo de mi ser deseara salir y supiera que de nada servía mentir, pues ellos ni se percataban, y no tendrían problema para encontrar otro quehacer.

Hoy soy un apátrida amargado, lo sé. El raro de la familia que ya no ha vuelto más al hogar, así no tengo que mendigar tampoco momentos de mis viejos amigos. “Tengo un perro y no es tan sencillo viajar con él”. Es mi excusa. No soy ni de aquí ni de allí ni tengo nadie a quien llamar amigo, salvo a ese perro que en realidad nunca he tenido.

domingo, 17 de mayo de 2015

FIN DE CURSO

El fin de curso se nos echa encima a toda velocidad. Yo no había caído, pero hace un par de días una amiga sacó el tema de los regalos de fin de curso para las profesoras, porque en la clase de su hijo ya estaban en ello y lo que habían propuesto no le gusta. Yo haría un detallito y ya, pero a la gente le gusta complicarse y acaba poniéndose en marcha una maquinaria que, en fin... El caso es que algunas madres pierden el norte cuando hay que decidir qué se le regala.

Foto tomada de www.zonaregalo.com

Sí, para nosotras nuestros pequeños son los mejores, los más simpáticos, los más especiales y los que mejor dibujan. Pero eso, para nosotras y, como mucho, para sus abuelitas y sus tías. Pero, ¿para su seño? Lo dudo. Por sus manos han pasado y pasarán cientos de niños a lo largo de los años y de algunos se acordará siempre, por diferentes motivos, y otros serán olvidados sin remedio. Y esto es así porque las seños, además de seños, son personas. ¿Quién se acuerda de todos sus compañeros de colegio o de todos sus profesores? Nadie, sólo se recuerdan aquellos que dejaron huella, buena o mala. Y la huella en la seño tendrían que dejarla nuestros peques, no las mamás.

Y a ver qué tipo de huella queremos dejar en la seño, porque yo creo que, llegado junio, igual tendrá ganas de dejar de ver cada día a nuestros pequeños diablos y dudo que le apetezca desayunar con una taza con las fotos de los veinticinco (dejémosle hacer borrón y cuenta nueva en vacaciones, es como si a ti tus compañeros de trabajo te regalaran una taza con sus fotos, ideal, lo que se llama un desayuno motivador); dudo también de que se vaya a la playa con una camiseta con la foto del grupo y escrito algo así como “La Clase de los Trogloditas 2014-15 nunca te olvidará” (sí, a todos nos gusta tener una camiseta que no sacamos a la calle ni para bajar la basura y que usamos el día que hacemos limpieza en casa); o de que, cuando salga de fiesta toda arreglada, se ponga un brazalete o un colgante con los nombres de veinticinco niños que no son suyos (sí, seguramente no tendrá otra joya que lucir); o de que dedique un solo segundo de su tiempo futuro a echar un vistazo a los dibujos que le hicieron sus niños de aquel año cuando ya estuvo nueve meses mirando las obras de los artistas Trogloditas (además, los pisos de hoy en día son pequeños, esa recopilación de dibujos acabará, en el mejor de los casos, en una caja en el trastero).

Cuando vivíamos en Italia las seños del cole habían pedido hacía un par de años que no se les hiciera regalo a ellas, sino que se comprara algo para el cole (si aquí la Escuela Pública está mal, allá, no lo cuento). Se juntaba el dinero de los tres cursos de infantil y se compraba lo que necesitaran. Gran idea. No sé si es que pensaron que era mejor invertir el dinero en cosas que luego revirtieran en los niños o es que ya no tenían sitio en casa para regalitos…

Yo tengo una mente retorcida que inventa mucho y me imagino al claustro de profesores, el día del festival de fin de curso, organizando un concurso del regalo más “original” y al ganador, como premio de consolación, le pagan entre todos los demás profesores la comida de fin de curso. Pero no, estas cosas pasan sólo en mi imaginación, seguro que a ellos/as les hacen gracia esos regalos.

Bromas aparte, no solemos conocer los gustos personales de las seños, de ahí que bolsos, foulards, bisutería, perfumes… puedan gustar o no. Un ramo de flores o una plantita (aunque la planta ya roza el problema, no todo el mundo tiene la paciencia para cuidarlas) y una postal con las firmas de los niños (si hay algún papá o mamá con el tiempo, la imaginación o los medios para hacerla en plan bonita, genial) agradecen tan bien el trabajo de las seños como cualquier otra cosa. Y si queremos gastarnos el dinero, bueno, pero que el regalo sea versátil: cajas de experiencias (spa, cena o noche de hotel, por ejemplo) o tarjetas regalo para que se compre lo que prefiera. Eso sí que sería un recuerdo estupendo de la clase.

jueves, 26 de marzo de 2015

Ñic-Ñoc quiere volver a casa

Este cuento lo escribí con mi hija Judith y sus compañeros de clase. Niños y niñas de cinco y seis años que desbordan imaginación. Después hicieron cada uno un dibujo sobre el cuento y la mamá de Félix ha hecho un trabajo magnífico combinando los dibujos con cada parte del cuento. Si queréis ver las ilustraciones, están en la entrada anterior (están junto al cuento original, en catalán). Y esta es la versión en castellano.

Votación para elegir al personaje principal del cuento

UNA MAÑANA DE FEBRERO, EN EL BOSQUET DE LA ESCUELA SE OYÓ UN RUIDO MUY FUERTE: boom, clonc, clinc!! Lourdes, la seÑorIta de lOs Dofins, DIJO A LOS ALUMNOS:
—Un momentO, Dofins, VOY A VER QUÉ PASA.
CuanDO Lourdes VOLVIÓ LES DIJO:
—No Os imaginÁIS quÉ he vistO. VeniD, veniD al bosqueT.
FUERON A TODA PRISA Y VIERON QUE UNA NAVE ESPACIAL SE HABÍA ESTRELLADO ENTRE LOS PINOS. haVÍA ALGO DE FUEGO Y SALÍA HUMO. eNTONCES, JUAN Y BERTA COGIERON UNA MANGUERA Y APAGARON EL FUEGO. dE REPENTE, SE ABRIÓ LA PUERTA DE LA NAVE Y SALIÓ UN extraterrestre MUY, MUY perO MUY PEQUEÑO. MIRÓ AL REDEDOR Y PREGUNTÓ CON SU ÚNICO OJO MUY ABIERTO:
—QUIENES SOIS, gIgantEs?
—SomOS la clase de lOs Dofins —DIJO Jan.
—PerO no somOS gIgantEs, somOS NIÑOS Y NIÑAS —DIJO Elena.
—ERES tÚ, que ERES MUY PEQUEÑÍN —DIJO VictOria.
—CÓMO TE LLAMAS Y DE DÓNDE VIENES? —QUISO saber Nora.
—ME LLAMO ÑIC-ÑOC Y VENGO DEL PLANETA ESTRELLA DE MAR, que ESTÁ MUY LEJOS DE AQUÍ. hE PASADO MUCHAS AVENTURAS ANTES DE LLEGAR A LA TIERRA. PERO MI NAVE SE HA ROTO Y AHORA... ¿QUÉ HARÉ? —Y SU OJO SE PUSO A LLORAR.
—No TE preocupEs, ÑIC-ÑOC, QUE TE VAMOS A AYUDAR—LE DIJO Maika.
—CLARO —DIJO Félix— ENTRE TODOS ARREGLAREMOS TU NAVE.
—Mmmm, no LO sé —ÑIC-ÑOC PARECÍA UN POCO PREOUPADO—, PORQUE CREO QUE SE HAN ROTO LOS PROPULSORES Y LA PIEZA QUE NECESESITO SÓLO LA FABRICAN EN MI PLANETA.
—eNTONCES, MANDA UN MENSAJE A TUS AMIGOS Y QUE TE TRAIGAN LA PIEZA —PROPUSO María S.
—No PUEDO, pOrquE el Transmisor IntergalÁcticO SE HA QUEMADO.
—¡No pasa NADA! PodemOS MANDAR el MENSAJE DE OTRA MANERA, ¿NO? —DIJO Abril.
—Sí, ¿tenÉIS alguna idea? —PREGUNTÓ ÑIC-ÑOC.
—¡Sí, CLARO!—DIJO Judith— PodemOS PONER EL MENSAJE DENTRO DE UN GLOBO Y SOLTARLO PARA QUE VAYA HACIA EL CIELO.
ENTONCES, Elsa ESCRIBIÓ EL MENSAJE PIDIENDO AYUDA PARA ÑIC-ÑOC Y JAUME LO PUSO DENTRO DEL GLOBO Y LO SOLTÓ.
—PerO no sabemOS si LLEGARÁ A SU PLANETA, EL CIELO ES MUY GRANDE —DIJO Llúcia UN POCO TRISTE.
—¿POr quÉ no inventAMOS una mÁquina voladora que PUEDA LLEVAR A ÑIC-ÑOC A SU PLANETA? —PROPUSO Mariona.
sE PUSIERON A PENSAR Y A PENSAR Y SE LES OCURRIERON MUCHAS COSAS. bIEL INVENTÓ UNA MOCHILA VOLADORA; Jordi, un robot saltador que LO LLEVASE A SU planeta; Illan INVENTÓ un coCHe volador; Iker, un tren volador; María R., una MESA voladora; LAURA, UN BARCO VOLADOR; Olalla, unA CAMA voladorA... PerO NINGUNO DE ESTOS INVENTOS FUNCIONÓ. CADA VEZ QUE ÑIC-ÑOC INTENTAVA VOLAR, EL INVENTO SE ESTROPEABA Y EL POBRE CAÍA ENCIMA DE UN COLCHÓN QUE HABÍAN PUESTO PARA QUE NO SE HICIERA DAÑO.
—¡Oooooh! —DIJO ÑIC-ÑOC—. No podré VOLVER NUNCA A MI planeta Y no VERÉ NUNCA MÁS A MI AMIGOS.
—PerO AHORA NOSOTROS TAMBIÉN SOMOS AMIGOS TUYOS Y PUEDES QUEDARTE AQUÍ —LE DIJO Clàudia Y LE DIO UN ABRAZO.
Mireia MIRÓ AL CIELO PENSANDO DÓNDE ESTARÍA EL planeta de ÑIC-ÑOC Y DE REPENTE VIO UNA NAVE QUE ESTABA LLEGANDO.
—¡MIRAD! ¡CreO QUE VIENE ALGUIEN A buscar A ÑIC-ÑOC!
ÑIC-ÑOC CORRIÓ AL BOSQUET SEGUIDO DE TODA LA CLASE DE LOS Dofins. De la naVE SALIÓ OTRO extraterrestre, AMIGO SUYO, que TRAÍA LA PIEZA QUE HACÍA FALTA PARA ARREGLAR LA NAVE. lA ARREGLARON Y MARtina LE DIJO A ÑIC-ÑOC:
—BUEN VIAJE, ÑIC-ÑOC, NO TE OLVIDES DE TUS AMIGOS LOS Dofins.
—No LO HARÉ, ME HABÉIS AYUDADO MUCHÍSIMO. sOIS UNOS NIÑOS Y NIÑAS MUY BUENOS. hASTA PRONTO.
Y LA NAVE DESPEGÓ Y SALIÓ MUY RÁPIDO HACIA EL CIELO. HACIA CASA DE ÑIC-ÑOC.

Aventura NACIDA de la imaginacióN de lOs alumnOs Y ALUMNAS de la clase de P5B Dofins (Abril, Berta, Biel, Clàudia, Elena, Elsa, Félix, Iker, Illan, Jan, Jaume, Jordi, Juan, Laura, Llúcia, Maika, María R., Maria S., Mariona, Martina, Mireia, Nora, Olalla, Victòria y Judith) CON la colaboracióN de la seÑorIta Lourdes y de Yolanda Gil (mare de Judith)

Tarragona, 23 de febrerO de 2015

domingo, 22 de marzo de 2015

Nyic-Nyoc vol tornar a casa

Aquest conte el vaig escriure amb la meva filla petita, Judith, i els seus companys de classe. Nens i nenes de cinc i sis anys que desborden imaginació. Les il·lustracions són dels mateixos i el disseny del conte combinant els dibuixets de tots els nens ha sigut cosa de la Valèria, mama del Félix, a qui des d’aquí agraeixo la feina tan ben feta.



Un matí de febrer, al bosquet de l’escola es va sentir un soroll molt fort: boom, clonc, clinc!!. La Lourdes, la senyoreta dels Dofins, va dir ALS ALUMNES:
—Un moment, Dofins, vaig a mirar què passa.


Quan la Lourdes va tornar els va dir:
—No us imagineu què he vist. Veniu, veniu al bosquet.
Van anar-hi tot corrent i van veure que una nau espacial s’havia estavellat entre els pins. Hi havia una mica de foc i sortia fum. Llavors, el Juan i la Berta vaN agafar UNA mànega i van apagar el foc. De sobte, es va obrir la porta de la nau i va sortir un extraterrestre molt, molt però molt petit. Va mirar al voltant i va preguntar amb el seu únic ull molt obert:
—Qui sou vosaltres, gegants?


—Som la classe dels Dofins —va dir el Jan.
—Però no som gegants, som nens i nenes —va dir l’HElena.
—Ets tu, que ets molt petitó —va dir la Victòria.
—Com et dius i d’on véns? —va voler saber la Nora.
—Em dic Nyic-Nyoc i vinc del planeta EstRelLa de Mar, que és molt lluny d’aquí. he passat moltes aventures abans d’arribar a La Terra. Però la meva nau s’ha espatllat i ara... què faré? —i el seu ull ES VA POSAR A PLORAR.
—No et preocupis, Nyic-Nyoc, que t’ajudarem—li va dir la Maika.
—És clar —va dir el Félix— tots plegats arreglarem la teva nau.


—Mmmm, no HO sé —el Nyic-Nyoc semblava una mica preocupat—, Perquè crec que s’han trencat els propulsors i la peça que necessitO la fabriquen només al meu planeta.
—Doncs, envia un missatge als teus amics i que et portin la peça —va proposar la María S.
—No puc, perquè el Transmissor Intergalàctic s’ha cremat.
—No passa res! Podem enviar el missatge d’una altra manera, oi? —va dir l’Abril.
—Sí, teniu alguna idea? —va preguntar el Nyic-Nyoc.
—Sí que en tenim —va dir la Judith—. Podem ficar el missatge dintre d’un globus i deixar-lo anar perquè vagi cap al cel.


Llavors, l’Elsa va escriure el missatge demanant ajuda per al Nyic-Nyoc i el Jaume el va ficar a dins del globus i el va deixar anar.
—Però no sabem si arribarà al Seu planeta, el cel és molt gran —va dir una mica trista la Llúcia.
—Perquè no inventem una màquina voladora que pugui portar el Nyic-Nyoc al seu planeta? —va proposar la Mariona.
van pensar i pensar i van tenir moltes idees. El Biel va inventar una motxilla voladora; el Jordi, un robot saltador que el portés al seu planeta; l’Illan va inventar un cotxe volador; l’Iker, un tren volador; la María R., una taula voladora; LA LAURA, UN VAIXELL VOLADOR; l’Olalla, un llit volador... Però cap d’aquests invents va funcionar. Cada vegada que el Nyic-Nyoc intentava volar, la invenció s’espatllava i el pobret queia sobre UN matalàs que havien posat perquè no es fes mal.


—Oooooh! —va dir el Nyic-Nyoc— No podré tornar mai al meu planeta i no veuré mai més als meus amics.
—Però ara nosaltres també som amics teus i pots quedar-te aquí —va dir-li la Clàudia i li va fer una abraçada.
La Mireia va mirar El cel pensant on seria el planeta del Nyic-Nyoc i de sobte va veure una nau que ARRIBAVA.
—Mireu! Crec que ve algú a buscar El Nyic-Nyoc!


El Nyic-Nyoc va córrer cap al bosquet acompanyat de tota la classe dels Dofins. De la nau va sortir un altre extraterrestre, amic seu, que portava la peça que calia per arreglar la nau. La van arreglar i la Martina va dir al Nyic-Nyoc:
—Bon viatge, Nyic-Nyoc, no t’oblidis dels teus amics els Dofins.
—No ho faré, m’heu ajudat moltíssim. Sou molt bons nens i nenes. Fins aviat.
I la nau es va ENLAIRAR i va sortir molt de pressa cap al cel. Cap a casa d’EN Nyic-Nyoc.


Aventura nascuda de la imaginació dels alumnes de la classe de P5B Dofins (Abril, Berta, Biel, Clàudia, Elsa, Félix, HElena, Iker, Illan, Jan, Jaume, Jordi, Juan, Laura, Llúcia, Maika, María R., Maria S., Mariona, Martina, Mireia, Nora, Olalla, Victòria I Judith) amb la col·laboració de la senyoreta Lourdes I de Yolanda Gil (mare de Judith)

Tarragona, 23 de febrer de 2015

sábado, 21 de marzo de 2015

DIA MUNDIAL DE LA POESIA /GIORNATA MONDIALE DELLA POESIA 2015

Ayer tuvo lugar en la Biblioteca Municipal de Tarragona el "Vermut Poètic" para celebrar el Día Mundial de la Poesía, que es hoy. Este año he vuelto a participar como alumna del Consorci per a la Normalització Lingüística de Tarragona leyendo en euskera la poesía "Uharte idatzia", traducción del poema original en catalán "Illa escrita" de Jaume Pont. Como este año no había nadie que pudiera leerlo en italiano, también me encargué yo de recitar (o lo al menos lo intenté) "Isola scritta". Transcribo aquí la poesía en catalán (original) y las traducciones al castellano, al italiano y al euskera.



Siccome oggi è la Giornata Mondiale della Poesia ieri si è cellebrato il “Vermut Poètic” alla Biblioteca Comunale di Tarragona. Quest’anno sono tornata a partezipare come allieva del Consorzio per la Normalizzazione Linguistica di Tarragona leggendo in euskera (la lingua della regione dove sono nata) la poesia “Uharte idatzia”, traduzione di quella originale in catalano di Jaume Pont detta “Illa escrita”. Quest’anno non c’era nessuno che potesse leggerla in italiano, quindi mi sono incaricata anch’io (ho fatto il mio meglio) di leggere “Isola scritta”. Vi scrivo qui la poesia in catalano, in spagnolo, in italiano e in euskera.

Ahir va tenir lloc a la Biblioteca Municipal de Tarragona el "Vermut Poètic" per celebrar el Dia Mundial de la Poesia, que és avui. Enguany he tornat a participar com alumna del Consorci per a la Normalització Lingüística de Tarragona llegint en eusquera la poesia "Uharte idatzi", traducció del poema original en català "Illa escrita" de Jaume Pont. Com aquest any no hi havia ningú que pogués llegir-ho en italià, també em vaig encarregar jo de recitar (ho vaig intentar) "Isola scritta". Deixo aquí la poesia en català (original) i les traduccions al castellà, a l'italià i al eusquera.

Traductores / Traductors / Traduttori / Itzultzaileak: Carlos Vitale (Castellano), Francesco Ardolino (Italiano) y Maite González Esnal (Euskera).

ILLA ESCRITA
Altra vegada sóc
al lloc mateix on sempre arribo
Joan Vinyoli

La mirada inventa el món, la llum.
Aquí comença el naufragi de l’ombra
o la secreta deriva dels ocells.

Sota la parpella, la matèria blanca
i la llum negra, eternitat suspesa
en l’aire con una música muda.

Invento el temps i el seu viatge:
poema, areny i duna líquida, tinta
o roca al peu dels núvols emergida.

Altra vegada sóc al lloc mateix
on sempre arribo: la mar on viu
la filla del més damnat dels dèus
i d’aquella gran bagassa del dolor
que porta per nom Malenconia.

Tot és un lent ajornar el clam
de la mudesa, tot és callada espera.

Només se sent una vaga fressa d’ales,
el foc blanc i l’aigua negra que bateguen
al cor d’aquesta illa escrita. Només:
en un mar de silencis, la foscúria.

ISLA ESCRITA
Otra vez estoy
En el mismo lugar donde siempre llego
Joan Vinyoli

La mirada inventa el mundo, la luz.
Aquí comienza el naufragio de la sombra
o la secreta deriva de los pájaros.

Bajo el párpado, la materia blanca
y la luz negra, eternidad suspendida
en el aire como una música muda.

Invento el tiempo y su viaje:
poema, arenal y duna líquida, tinta
o roca al pie de las nubes emergida.

Otra vez estoy en el mismo lugar
donde siempre llego: el mar donde vive
la hija del más condenado de los dioses
y de aquella gran ramera del dolor
que lleva por nombre Melancolía.

Todo es un lento aplazar el clamor
de la mudez, todo es callada espera.

Sólo se oye un vago aleteo,
el fuego blanco y el agua negra que palpitan
en el corazón de esta isla escrita. Sólo:
en un mar de silencios, la oscuridad
ISOLA SCRITTA
Sono di nuevo
Nello stesso punto in cui ritorno sempre
Joan Vinyoli

Lo sguardo inventa il mondo, la luce.
Qui inizia il naufragio dell’ombra
o la segreta deriva degli uccelli.

Sotto la palpebra, la materia bianca
e la luce nera, eternità sospesa
in aria come una musica muta.

Invento il tempo e il suo viaggio:
poesia, sabbia e duna liquida, inchiostro
o roccia sotto le nuvole emersa.

Sono di nuovo nello stesso punto
in cui ritorno sempre: il mare in cui vive
la figlia del più dannato degli dei
e di quella baldracca del dolore
chi di nome fa Malinconia.

Ed è un lento procrastinare l’invocazione
del mutismo, ed è una taciturna attesa.

Si sete soltanto un vago fruscio di ali,
il fuoco bianco e l’acqua nera che battono
nel cuore di quest’isola scritta. Soltanto:
in un mare di silenzi, l’oscurità.
UHARTE IDATZIA
Berriro nago lekuan
Beti itzultzen naizena
Joan Vinyoli

Begiradak asmatzen ditu mundua, argia.
Hemen hasten da itzalaren hondoratzea
edo txorien jito izkutua.

Betazalaren azpian, materia zuria
eta argi beltza, airean zintzilikatutako
eternitatea musika mutua lez.

Asmatzen ditut denbora eta bere bidaia:
poema, hareatza eta hondar muino likidoa, tinta
edo harkaitza hodeipean jalgia.

Berriro nago beti itzultzen naizen
leku berean: itsasoa non bizi den
jainko zitalaren eta oinazearen
emagaldu handiaren alaba
Malenkonia deitzen dena.

Oro da nututasunaren ardailaren
atzeratze geldoa, oro da zain egote isila.

Hegaldi arin bat aditzen da bakarrik,
su zuria eta ur beltza taupadaka
uharte idatzitakoaren bihotzean. Bakarrik:
isiltasunezko itsasoan, iluntasuna